Misty/Sittlieb, mamma di un bel forum montagnino e consueta visitatrice di questo angolino di rete, invita me e altri blog che si occupano di monti a postare la lettera che Paolo Rumiz ha inviato ad Annibale Salsa in occasione del 98esimo congresso nazionale del CAI. Congresso che aveva come tema "Identità e ruolo del Club Alpino Italiano in una società in trasformazione".
Non sempre mi sento di sottoscrivere in pieno gli articoli di Rumiz, a volte la passione lo fa essere affrettato nei giudizi, a volte è anche impreciso, cosa che per un giornalista non è un peccato veniale. Ogni tanto lo trovo anche un po' meló e... non condivido sempre i suoi avverbi e la sua punteggiatura :P
Ma questo grido di dolore merita attenzione e diffusione anche se, in particolare col governo che abbiamo in carica, servirà solo a inquietare maggiormente chi è già inquieto di suo.
il Gruppo del Latemar, assediato da tutti i lati da piste da sci e impianti di risalita, e tuttora interessato da nuovi disboscamenti e scavi
Lettera di Paolo Rumiz al presidente del Cai Annibale Salsa.
In occasione del 98esimo Congresso del CAI - Predazzo .
"Caro Salsa, ti invio questo mio intervento perché sia letto nella sede appropriata. Mi dispiace non essere venuto, ma nella lettera capirai.
Cari amici,
E’ curioso che non possa essere qui tra voi perché il mio giornale mi ha spedito a occuparmi di montagna. Questa mia diserzione è figlia della stessa emergenza che sarà sul tavolo dei vostri lavori. Devo vedere cosa accadrà quando la scure dei tagli pubblici si abbatterà sulle ultime scuole lasciate a presidio delle valli più lontane e spopolate. Lo dico con dolore. Per l’ennesima volta devo monitorare un abbandono di terre alte che apre la strada ai… cinghiali, al degrado e al saccheggio delle risorse. Il mio disappunto per non essere qui a Predazzo è attenuato – ma solo in piccola parte - da questa mia “chiamata alle armi” a difesa dei territori di cui - oggi qui - vi occupate.
Questa mia non è una semplice lettera formale di scusa per un’assenza. E’ qualcosa di più. E’ un’invettiva contro il degrado della montagna di cui vorrei che il Cai tenesse conto, e quindi vorrei fosse considerato un intervento a tutti gli effetti. Ritengo che i lavori sulla Tutela ambientale debbano essere prioritari su qualsiasi altra discussione, tale è l’emergenza che ci troviamo a fronteggiare. Tutto il resto – reclutamento soci, cultura, manifestazioni - sono quisquilie rispetto alla trasformazione biblica cui stiamo assistendo e che la civiltà dello spreco fa di tutto per non farci vedere nella sua reale gravità.
Gli alpinisti non sono una casta. Essi fanno parte dell’Italia e non devono tutelare se stessi per costruirsi serre riscaldate, ma esporsi in prima linea – nel vento forte - per tutelare coraggiosamente il loro Paese, il nostro Paese, senza guardare in faccia nessun Governo, nessun colore politico, nessuna confraternita di pressione economica o politica. Vorrei che il Cai sapesse di essere una lobby e di avere una massa critica e una capacità di pressione sufficienti a cambiare le cose, una forza d’urto che esso può esercitare, se necessario, platealmente, facendosi sentire con iniziative clamorose sotto il portone del Palazzo. Non ci sono più alibi per defilarsi.
Panorama dolomitico con impianti
Ho cominciato a frequentare la montagna da bambino. Da adolescente ho sognato le prime arrampicate leggendo “Alpinismo Eroico” di Emilio Comici, e talvolta, inseguendo questo eroismo ho rischiato la vita da incosciente. Erano gli anni in cui, specialmente nella mia Trieste, le Alpi erano le sentinelle della Nazione. Da Aosta a Tarvisio gli Alpini uscivano ancora con i muli. Poi è arrivata la stagione adulta, il sesto grado, le nuove vie aperte in Pale di San Martino, Gruppo dell’Agner, Dolomiti della Sinistra Piave. A trent’anni ho lasciato l’arrampicata, quando ho messo su famiglia, ma ho continuato a frequentare la montagna con occhio attento alle sue genti e al suo habitat.
Negli anni seguenti ho raccontato l’Alpe come giornalista e scrittore, continuando a percorrerla in silenzio, e più la percorrevo, più aumentava la mia insofferenza per certo alpinismo – ginnico, narciso e dunque infantile - che puntava all’estremo ignorando tutto ciò che circondava lo strapiombante itinerario verso la vetta. Tutto, a partire dagli uomini. Essi non vedevano l’agonia dei ghiacciai, l’inselvatichirsi del territorio, la desertificazione dei villaggi, la requisizione delle sorgenti, l’aggressione agli ultimi spazi vergini, la cementificazione degli altopiani, la costruzione di impianti di risalita nel cuore di parchi naturali. Non reagivano allo smantellamento del paesaggio che la nostra Costituzione ci impone di tutelare.
Ampliamento di un già grande albergo a 100 metri dal biotopo di Monticolo (BZ)
Nel 2003, l’anno della grande sete, ho monitorato le Alpi, in un affascinante viaggio di quattromila chilometri dal Golfo di Fiume fino alle Alpi Liguri. Ne ho tratto un racconto a puntate uscito in 23 puntate su “la Repubblica”, una pagina al giorno. Il Grande Male che ci mina dall’interno era visibile ovunque, nel prosciugamento dei fiumi. Mai nella storia d’Italia, erano stati così spaventosamente vuoti. Il loro simbolo era il Piave, teoricamente sacro alla Patria, ma praticamente ridotto a un rigagnolo, un greto allucinante spesso più alto delle stesse strade che lo costeggiano. Uno stupro perpetrato dalla stessa Enel che aveva ereditato il Vajont.
Non esiste in Europa un Paese con i fiumi nello stato pietoso di quelli italiani. Le nostre acque non mormorano più, sulle nostre valli scende una cortina di silenzio funebre di cui nessuno parla. La gravità della situazione non sta solo in quelle ghiaie allucinanti, ma nel fatto che pochissimi le notino, nel fatto che TUTTO attorno a noi – dalla pubblicità audiovisiva nelle stazioni alla dipendenza nazionale dai telefonini - è costruito perché non ci rendiamo conto del disastro e continuiamo a dormire sonni tranquilli fino a requisizione ultimata delle risorse superstiti.
L’opinione pubblica italiana dorme, sta a noi svegliarla. Sta a noi, innamorati della montagna, ricordare che l’Italia è malata e nonostante questo c’è chi vuole succhiarle le ultime risorse. Una notissima multinazionale dell’alimentazione sta apprestandosi a requisire le ultime fonti dell’Appennino tosco-emiliano; altre società hanno catturato le residue sorgenti libere della Val Tellina con la scusa di preservare una risorsa preziosa. Si inventano eufemismi per consentire gli espropri: per esempio “neve programmata”, per nobilitare quel salasso di fiumi moribondi che si chiama innevamento artificiale.
Si afferma che pompare acqua dai fiumi serve a sostenere l’economia della montagna e quindi a evitare lo spopolamento, ma tutti – anche i citrulli – sanno che quegli impianti affogano in deficit spaventosi che la mano pubblica, resa sensibile da opportune donazioni, sarà chiamata a coprire con i nostri soldi. E tutti, nel comparto, sono a conoscenza che più nessuno in Austria, Francia, Slovenia, Svizzera e altre nazioni montanare d’Europa, programma seggiovie a quote dove la neve non arriva se non episodicamente.
La strazione sciistica di Marilleva 900
Ma la grande scoperta della mia vita di giornalista è stata l’Appennino, che ho percorso metro per metro nel 2006, dando vita a un’altra serie di reportage. Ho scoperto un arcipelago di meraviglie e una rete di uomini-eroi che si ostinano a resistere in quota perché hanno la lucida certezza che l’equilibrio del nostro Paese dipende dalle terre alte. Un’Italia minore, dimenticata dal potere, della quale temo che il nuovo federalismo in auge servirà solo a sdoganare il saccheggio.
Il simbolo di questa aggressività suicida del Paese verso la sua montagna l’ho visto incarnato nella pastorizia, massacrata di divieti e schiacciata da un’alleanza fra burocrati di provincia e una grande distribuzione che spaccia nei nostri negozi carne straniera senza nome e senza qualità. La pastorizia, cenerentola dimenticata, dopo essere stata per secoli inestimabile ricchezza del Paese.
Sempre più spesso capita che ai piccoli comuni spopolati e in bolletta si presentino emissari di grandi aziende che, in nome dell’equilibrio ambientale e altre cause nobili come l’abbattimento del CO2 o il salvataggio delle acque, propongano la costruzione di piccole o grandi centrali, come quella a biomasse che presto stravolgerà la parte più intatta dell’Appennino parmense. Senza più lo Stato alle spalle, questi Comuni non hanno più gli argomenti tecnici e la capacità contrattuale per dialogare alla pari con questi giganti danarosi, capaci di mettere a tacere qualsiasi resistenza. La montagna da sola non ce la fa a proteggersi. Anzi, talvolta è la peggior nemica di se stessa.
Per questo credo che, oggi nel Cai, il ruolo di sentinella dell’Alpe vada rivisto. Noi soci restiamo sentinelle, certo: sapendo però che il nemico non è più esterno alla frontiera, ma abita qui e si muove come vuole nella finanza, nell’economia e nella politica del Paese. Per batterlo serve un’alleanza fra città a provincia, alpinisti e montanari. Il Cai deve ritrovare lo spirito delle origini, laico e indipendente dell’Italia post-risorgimentale che partì alla scoperta di se stessa, monitorando, crittografando, esplorando con passione ogni angolo sperduto del territorio appena unificato. L’Italia è un Paese di montagna, e non voglio che diventi un’esausta colonia, a disposizione di poteri senza patria.
Scavi per le canalizzazioni a contorno del bacino idrico per l'innevamento artificiale - Bondone, località Mezzavia
E verrà un giorno in cui i fiumi si svuoteranno, l’aria diverrà veleno, i villaggi saranno abbandonati come dopo una pestilenza, giorni in cui la neve e la pioggia smetteranno di cadere, gli uccelli migratori sbaglieranno stagione e gli orsi non andranno più in letargo. Verrà anche un tempo in cui gli uomini diverranno sordi a tutto questo, dimenticheranno l’erba, le piante e gli animali con cui sono vissuti per millenni.
Sembrano le piaghe d’Egitto. Invece è l’Italia di oggi. Pensate che uno ci dica tutto questo, un profeta solitario incontrato per strada. Gli daremo del matto? Oppure taceremo per la vergogna di ammettere che è già successo e di non aver fatto niente per impedirlo?
Paolo Rumiz "
(grazie Misty per l'autorizzazione al cut/paste)
Beh, direi che sulle immagini dell'Apocalisse di San Giovanni e sull'esposizione nel vento forte in questi casi si può sorvolare volentieri, la sostanza c'è tutta e la sacrosanta indignazione anche.
RispondiEliminaSono d'accordo persino sul recupero dello spirito risorgimentale, guarda, è tutto dire.
Di niente Fra ;) a me poi è giunto dalla ml di MW ;)
RispondiEliminaMisty
la terra un giorno si ribellerà e l'uomo verrà spazzato via...
RispondiEliminaCosa dire ha ragione su tutto, quello che stiamo consegnando, ormai da un po' di generazioni, non solo la mia, a quelle più giovani è un modello che non regge più. Forse mia figlia che oggi ha 15 anni e tutti i suoi coetanei, quando avranno qualche anno di più saranno drammaticamente costretti a prendere, come generazione, come popolazione, delle decisioni pesanti, pena la loro sopravvivenza. Non è catastrofismo è solo la constatazione che il modello "energetico", nel senso più largo del termine, che noi stiamo utilizzando da più di un secolo non potrà reggere ancora a lungo. Mi piace sempre citare, il "motore a scoppio": Ci muoviamo dopo 150 anni ancora con quel meccanismo. Trasformiamo a bassissimo rendimento energia termica in energia meccanica. Gli stessi principi gli applichiamo all'agricoltura, al sociale, a tutto. Da più di un secolo immettiamo tanta energia per produrre meno della metà, il resto finisce in questa scatola, che signori miei non è così infinita.... Poi c'è chi vive in "bei posti", e se ne accorge forse meno meno rispetto a chi abita a Sesto S. Giovanni, c'è chi ha le cosidette fette di salame... c'è chi fa finta di niente ma il problema non cambia. Mia figlia quando raggiungerà la mia età, nel 2047 sarà costretta a decidere su quale modello di sviluppo, pena la loro sopravivvenza.
RispondiEliminaGuido
guido, i tuoi commenti sono sempre un post grazie del tempo che gli/mi dedichi
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