venerdì 24 luglio 2009

I lamenti delle Dolomiti (zitadini2)

Ieri pomeriggio, al rifugio Boè (2873 metri s.l.m.), si è fermata la funivia per il vento forte. Càpita, in montagna alta, che tiri vento e si debbano fermare gli impianti, non è una new entry.

Ma al rifugio Boè, comodamente raggiungibile in funivia e piuttosto scomodamente raggiungibile a piedi, ieri suonava Paolo Fresu insieme ai Virtuosi Italiani, nell'ambito della manifestazione "I suoni delle Dolomiti": nome che tira parecchio in una manifestazione che tira altrettanto.

Rifugio Boè e spettatori dei Suoni delle Dolomiti (foto Loriz)

Totale: almeno 400 persone incazzate come aquile, la maggior parte non preparata né attrezzata, giù letteralmente a rotta di collo per il sentiero imprecando, preoccupandosi, bestemmiando tutti i santi in paradiso.

Un colorito spaccato dell'esodo raccontato dalla mia amica Loriz, una che per monti ci sa andare e sa distinguere il facile dal difficile, coinvolta suo malgrado nella disavventura:

"[durante il concerto...] tutto bene, tutti bravi, rispettosi, niente casino... meglio di quel che avrei potuto immaginare;

Al rientro niente funivia per il troppo vento, e allora noblesse oblige scendere a piedi.. e qui si e' manifestato tutto il carattere degli italiani, imprecazioni, litigi, un casino, perché non è possibile che si chiuda la funivia, se il vento la ribalta fa lo stesso, basta arrivar giù montadi comodi comodi. Avessi sentito che nervosismo per l'imprevisto!

volenti o nolenti giù tutti quanti a piedi come le formichine e qui non è stato cosi' bene, gente che non sapeva camminare sui sentieri, che ovviamente salire in funivia è facile. Alla forcella un ventaccio che solo poche volte ho sentito così forte, mi ha letteralmente sbattuta a terra; c'erano dei tipi che hanno tagliato in un tratto dove non era proprio il massimo far rotolar sassi, invece ne è partito uno grosso come un pallone che ha sfiorato gente e qui improperi e parolacce e via dicendo; io di mio me la ridevo ma ti confesso che sono rimasta assai perplessa."

La coda dei disperati (foto Loriz)

"insomma mi sono chiesta se è giusto portare su così tanta gente, facile salire in funivia ma poi come ben sappiamo la natura ci mette lo zampino... se succede qualcosa chi si prende la responsabilità visto che e' un evento organizzato? Molti pretendevano che gli venisse dato da dormire perché a piedi non volevano scendere, c'era una coppia di ragazzi davanti a me che diceva: ma perché non ci hanno detto che poteva succedere anche questo? un tizio e' caduto si e' fatto male ed e' intervenuto l'elicottero; c'era una vecchietta sostenuta da due uomini, con la maglia sulla testa per non vedere il vuoto sotto.

Ad un tratto, eravamo a 2 terzi di strada, vedo uno con radiolina che offriva integratori a tutti e da bere, poi vedo dei ragazzi che portano sulle spalle confezioni da 6 di acqua e bevande e mi dico: ma che cavolo, a chi le portano? Le portavano alla gente che scendeva! Secondo me chi ha organizzato ha capito del casino che stava succendendo. Sono arrivati anche gli elicotteri e con quel vento penso abbiano avuto qualche problemino ad atterrare. 

Io mi chiedo se fosse venuto un temporale di quelli giusti, di quelli che arrivano in mezz'ora, che sarebbe successo? si insomma un bel casino e se domani, come posso immaginare, ci fossero  polemiche non mi stuperei."

Le formichine in discesa dal rifugio Boè (Foto Loriz)

E ci siamo chieste se è proprio il caso di organizzare eventi in posti così complicati da gestire. Certo, molto suggestivi e markettari, ma molto pericolosi se succede un qualsiasi imprevisto. Molta gggente non si rende conto di dove sta andando, dei suoi limiti, nessuno glie lo spiega che non è come andare a far vasche in centro dove se piove basta entrare in un negozio e se non c'è l'autobus alla peggio si prende un taxi. Certo, la gggente ha bisogno che le si mastichi la minestra perché da sola non lo sa fare, bisogna dirle che in montagna si va con gli scarponi e tutte le altre banalità che si ripetono ogni volta che incontriamo degli sprovveduti in giro per sentieri, che il sentiero che scende dal Boè non è piano né cubettato e che le funivie a volte si fermano, ma anche gli organizzatori, caspita! Avvertire che non è come andare al Lido, pareva esagerato? Lo sanno con chi hanno a che fare!

Gli uni "tanto c'è la funivia, tanto c'è il rifugio" gli altri "'sa vot mai che suceda? tanto gh'è la funivia, tanto gh'è el rifugio" alla peggio l'elicottero (chi lo paga, detto per inciso? io? sticazzi!) e tutto fa marketing.

C'è un po' di differenza organizzare un evento al rifugio Tonini, a capanna Cervino dove arriva la strada o al rifugio Boè e l'APT dovrebbe saperlo. A prescindere dal senso di portare ulteriore casino al Boè a 3.000 metri dove ce n'è parecchio senza bisogno di aggiungerne altro, fra sciurete in scarpine Ferragamo e specchio per abbronzarsi meglio e gente imbragata che arriva dalla ferrata. (Un'amica sadica a cui raccontavo avrebbe pagato qualcosa per vedere le Ferragamate scendere dal Boè. E io pure, ammetto :P)

Loriz conclude: "Io penso:visto che si sono intestarditi con i concerti in montagna e forse in qualche luogo ci potrebbero anche stare, pero' secondo me sarebbe il caso di non forzare su luoghi così in quota e serviti dagli impianti. Penso che se non ci fosse la funivia il numero sarebbe stato parecchio ridotto e gente che perolomeno sa tirarsi su e giù dai sentieri." e io non posso che darle ragione!

(Grazie Loriz per le foto e per l'autorizzazione a pubblicare stralci della tua mail e della nostra chiacchierata in chat :)

martedì 21 luglio 2009

Un piccolo passo, un balzo culturale enorme

Foto JRRT

La mia nonna, nata ai tempi delle candele e dei carri trainati dai cavalli, che non aveva ancora capito come funzionasse un interruttore, passò questa notte, 40 anni fa, davanti alla TV.

Il giorno dopo aveva le gambe gonfie, era stanca morta, irritabile e più incazzosa del solito (e ce ne voleva!), ma era ben conscia di aver assistito a qualcosa di immenso: lei c'era, quando Armstrong mise il primo piede umano sulla luna.

Armstrong ha fatto il famoso grande passo, ma mia nonna? Ogni tanto ci penso: quando è nata, le automobili erano così:

Benz Patent-Motorwagen "Velo". fonte Wikimedia commons

La luce elettrica, in paese, non esisteva: studiò poco, quel che serviva a una figlia femmina, alla luce delle candele, che di giorno c'erano i fratellini da accudire, la campagna, le vacche, la casa, i vecchi nonni da badare, l'acqua da andare a prendere alla fontana pubblica, i panni da lavare a mano...

Andò in viaggio di nozze, in carrozza che si era sposata con uno "solido", da Tuenno (val di Non) a Riva del Garda. Suo marito era cancelliere al tribunale, mica paglia, poteva permettersi la carrozza: un paio di giorni di strada, allora. Un'ora e mezza quando c'è traffico, adesso.

Quando è nata i fratelli Lumière erano agli inizi delle loro sperimentazioni, la radio di là da venire, la televisione nemmeno immaginata, la luna calendario per le semine, per l'imbottigliamento del vino, per le mestruazioni, per le nascite, le variazioni meteorologiche. Che ci si potesse passeggiare sopra era un'idea da ubriachi o da sognatori.

Lei, una vecchia cornacchia non molto simpatica, ha attraversato tutto questo. In 87 anni di vita ha visto le carrozze e il LEM, il grande viaggio a Riva del Garda e quello sul Mare della Tranquillità.

Nonna Alba, primi del '900.

Per forza siamo un pochino scombiccherati: come si può passare dagli asini ai missili in 2 generazioni, quando fino ad allora i mutamenti si misuravano nell'ordine delle centinaia di anni, senza rimanere un po' sconcertati?

La tecnologia corre più veloce dei mutamenti culturali, la ricerca scientifica più veloce dell'etica, la corteccia cerebrale si appoggia sul cervello del serpente che non riesce a star dietro all'evoluzione scientifica. Noi siamo gli stessi dei tempi degli egizi, il mondo che abbiamo costruito invece no.

Così sconcertati che tuttora in molti non riescono a crederci che, piccolini e un po' scemi come siamo, siamo arrivati sulla luna.

lunedì 20 luglio 2009

Come corrono quei buoi!

 Seiseralm / Alpe di Siusi

Nell'agosto di due anni fa scrivevo un post con argomento Seiseralm/Alpe di Siusi, intitolato "Quando i buoi sono scappati": parlavo dei buoni propositi del Sindaco di Kastelruth, Reichhalter, che, oltre a far demolire alcune baite abusive, negava ogni nuova licenza edilizia per strutture ricettive e vietava la vendita di alloggi a non residenti. Solo "permessi di ampliamento fino al raddoppio di cubatura per quegli alberghi che finora non hanno approfittato dell'opportunità concessa dal piano paesaggistico del 1982. Ampliamenti concessi per inserire "strutture benessere" e per ampliare le stanze. Ogni albergo potrà aggiungere al massimo 5 nuove camere, non di più."

Ma i raddoppi di cubatura, le strutture benessere, i "modesti ampliamenti" autorizzati ad alcuni proprietari dei vecchi fienili in legno previo abbattimento delle vecchie baite, lo spostamento del brutto rifugio del Touring Club da passo Duron al Compatsch, (e il vecchio rifugio, una volta spostato, che fine farà? abbattuto o cambierà semplicemente nome diventando un altro albergo sulla Seiseralm? a pensar male...) avevano trasformato l'estate sull'Alpe in un'estate in cantiere.

Rifugio del Touring a passo Duron 

Sono passati due anni, e sul "Corriere dell'Alto Adige" di venerdì scorso, un'intera pagina è dedicata alla protesta di residenti e villeggianti: Occhiello: "Gru e camion su una vasta area. In costruzione il centro per il fondo, i servizi ricettivi e la nuovissima funivia". Titolo: "Polvere e rumore, non è più l'Alpe di Siusi"; sottotitolo: "Cantieri nel mirino di visitatori e residenti. Senoner: interventi selvaggi, colpa della Provincia"

"La vista all'arrivo della funivia di Compaccio, sull'Alpe di Siusi, è disarmante per i turisti. E' tutto un cantiere aperto, sono in costruzione un centro per gli sciatori di fondo, con servizi e ristorante, e un albergo, (il Dialer, rilocalizzato a Compatsch) [il rifugio del Touring - N.d.f.]. Un po' più in là una gru scava per i piloni della nuova seggiovia del Bullaccia [scavano le gru? non sapevo. Ma il senso dell'articolo non cambia]. Le indicazioni per il parco naturale e per la seggiovia "Panorama" sono fissate su transenne, su di un sentiero ricavato che passa sotto le gru, in mezzo ai cantieri. Le campane delle mucche sono soffocate da camion, urla e martellate degli operai"

[...]

"E' uno scempio, bisogna sospendere i lavori, - protesta un gruppo di turisti emiliani - ci siamo rimasti malissimo, la natura è così bella, ma bisogna andare sempre più lontano per godersela. Ed è pieno di macchine, oggi ho visto la guardia forestale fare la multa a una nel prato"

[...]

"Sarà che sono di vecchia generazione, ma è proprio uno schifo - impreca un anziano bavarese agitando il bastone nel fumo alzato da una betoniera - un albergo, un altro? ma non ne avete abbastanza?*"

E i buoni propositi del sindaco dove sono finiti? Sono almeno tre estati che sull'Alpe girano più operai che turisti, che ne vogliamo fare?

Otto Senoner, presidente del comitato di cittadini che si batte per salvare il salvabile e che fa capo al sito Proseiseralm , si sfoga col giornalista del Corriere: "Si lavora in modo selvaggio sia in Saltria che al Compaccio: basta pensare alla chiesa, al centro dei vigili del fuoco. Ora si parla di costruire addirittura dei tunnel sull'Alpe: la Provincia lascia che si costruisca di tutto, è una vergogna*"

Testo italiano dell'appello del comitato Proseiseralm.

Ogni estate il ritornello è lo stesso: opere necessarie, l'anno prossimo sarà tutto a posto. Non si può fare altro, portate pazienza. Fra poco sarà tutto finito, il paesaggio non subirà danni, state calmi, state buoni...

Intanto, per nascondere un po' il casino agli occhi dei possibili visitatori, la webcam piazzata all'arrivo della funivia è stata girata: non punta più sul Langkofel seminascosto dalle gru (nel frattempo erano aumentate, l'ultima volta che ho guardato erano 3), ma sullo Schlern.

Ci vorrà tempo, secondo me, per riportare all'Alpe i turisti amareggiati che abbiamo letto nelle interviste riportate sopra e in quelle che non ho copiato. Ma pare che interessi poco il turismo estivo: si lavora e si cementifica sempre e solo per il dio dello sci. Che diventa sempre più ombroso e stitico: gli sciatori calano, ovunque, poco da fare.

Come corrono quei buoi, sono già molto lontani! Speriamo non si siano portati appresso anche la gallina dalle uova d'oro.

[A prestissimo report fotografico a cura della vostra inviata speciale (LE vostrE inviatE? Val? a rapporto!)]

(*) Giorgio Chiodi sul Corriere dell'Alto Adige, Venerdì 17 luglio 2009, pag.3, sezione Primo Piano

domenica 19 luglio 2009

19 luglio 1985

fonte: fondazione Stava 1985

Zorzi Agnese
7 novembre 1901 - 19 luglio 1985
Tesero (Trento)

Lanzi Lucia
4 novembre 1984 - 19 luglio 1985
Castellarano (Reggio Emilia)

nate entrambe in novembre a 83 anni di distanza. 160.000 metri cubi di fango le hanno sepolte, lo stesso giorno, il 19 luglio di 24 anni fa. Morte per incuria, sciatteria, superficialità, pigrizia, disinteresse e interessi, pubblici e privati.

Sono la più anziana e la più giovane delle 268 vittime della tragedia di Stava.

"Così si chiamavano
di Paolo Ghezzi,
direttore del Quotidiano "L'Adige" dal 1998 al 2006. Articolo scritto nel ventennale della tragedia.

Si fa presto, oggi, vent'anni dopo, a ridire Stava.
Ma ci dovrebbe tremar la voce, a ripetere o riascoltare quel nome. È stata una strage degli innocenti. È stata un'ecatombe di famiglie. Si fa a presto a dire: 268 vittime. Si fa presto a dimenticarle: sono già passati vent'anni.
Ma provate a scriverli, 268 nomi, cognomi, età e luoghi di residenza. La mano si stanca, il cuore si commuove a rileggere, soprattutto i più piccoli e i più vecchi, quelli più fragili, meno esperti o troppo stanchi: Lorenzo, 11 anni; Giovanni, 10 anni; Felicita, 83 anni; Alice, 3 anni; Anna, 83 anni; Riccardo, 10 anni; Elisabetta, 8; Sara, 1 anno; Cristina Laura, 8 anni; Stefano, 9; Tommaso, 6; Emanuele, 2 anni; Cristina, 9; Ilaria, 4; Massimo, 6; Laura, 2 anni; Marco, 4; Massimo, 9; Giovanni, 83 anni; Matteo, 3 anni; Lucia, 8 mesi; Bruno, 83 anni; Giuseppa, 79; Massimo, 5 mesi; Pasquale, 84 anni; Emanuele, 1 anno; Filippo, 8 anni; Giorgio, 8; Edoardo, 9 mesi; Alessandro, 10 anni; Stefano, 10; Daniele, 3; Elena, 7; Raffaele, 5; Riccardo, 10 anni; Maria Grazia, 9; Patrizia, 1; Erica, 8 anni; Agnese, 83 anni. E poi tutti gli altri.
Erano mariti e mogli, padri e madri, figli e figlie, nonni e nipoti, zii e cognati. Erano famiglie italiane qualunque: quelle brianzole, o milanesi, o reggiane, o venete, o romane, o marchigiane in vacanza; erano gli operai trentini o le cameriere sarde che stavano lavorando lassù; erano i teserani che avevano gli alberghi o le case spazzate via.
Rileggiamoli, oggi, tutti quei nomi. Ci sono quelli demodé degli anziani (da Desdemona a Colomba), ci sono quelli dei figli degli anni Ottanta: i Marco, i Massimo, le Ilaria, le Erica. Ci sono i nomi nostri, quelli di tutte le nostre famiglie. C'è tutto un microcosmo di Italia inghiottito e spazzato via.
E siccome ai morti non si può chiedere scusa, il Trentino - oltre a celebrare giustamente i soccorritori - deve chiedere perdono ai familiari di quelle 268 persone spazzate via dal piccolo grande orrendo tsunami montanaro originato dall'insipienza umana: degli industriali che sfruttavano la miniera e degli amministratori e dei funzionari che non controllavano, di chi chiuse gli occhi, di chi non capì, di chi sottovalutò i segnali di pericolo.
Sì, torniamo a chiedere perdono a chi vive con l'offesa di una morte assurda. E torniamo a fare memoria dei loro nomi. Dei bambini e dei vecchi già nominati e di tutti gli altri cancellati dal fango.
Si chiamavano: Claudina, Vitale, Salvina, Felice, Armando, Renata, Roberto, Marina, Michele, Antonia, Carmela, Francesco Vito, Rosa, Luciana, Giovanni, Cesare, Renata, Natalina, Angelo Emilio, Giuseppe, Carla, Fausto, Pierangela, Celeste, Roberto, Marisa, Riccardo, Mara, Claudio, Luciana, Michelina, Tullio, Enzo, Cesira, Andrea, Agostino, Ottavia, Arturo, Elide, Maria Assunta, Maria, Renata, Giuseppe, Davide, Adriano, Angela, Anna, Giancarlo, Teresa, Deborah, Ennio, Maria, Irlanda, Lanfranco, Maria Enrichetta, Francesco, Valentina, Antonietta, Silvana, Colomba, Alcide, Norma, Andreana, Carlo, Claudio, Lucio, Maria Clementina, Giovanni, Maddalena, Manuela, Paolo Maria, Davide Maria, Giuseppe, Livia, Donato, Patrizio, Fabio Massimo, Gabriella Gemma, Marzio, Maria Grazia, Andrea, Massimo, Federico, Anna Maria, Armando, Valter, Rosella, Carlo, Maria Agnese, Giovanna, Rosanna, Maria Rosa, Matteo, Eliana, Giuseppe, Giovanna, Stefano, Maria Pasqua, Wanda, Anna, Alessandro, Giulio, Cesare, Kurt, Geltrude, Lucy, Olga, Rinaldo, Lucia, Andrea, Renzo, Lidia, Rossella, Wilma, Vera Rosaria, Gaetano Giuseppe, Elodia, Maria Luigia, Rosa, Iole, Nella, Adele, Fernanda, Athos Carlo, Elda, Antonio, Marcello, Ernesta, Liana, Luciano, Maria, Mario, Dolores, Giuseppe, Giuliano, Sandra, Ignazio, Enza, Mario, Lilliana, Lucia, Ottorino Salvatore, Laura Giuseppina, Fiorella, Clara, Maria Grazia, Stefano, Guido, Desdemona, Antonietta, Paolo, Valentino, Anna, Luigina, Rolando, Giuliana, Sandro, Alda, Aldo, Italia, Bruna Virginia, Michela, Mario, Giuseppina, Ciro, Virginia, Maria Rosaria, Mariano, Santa, Alessandra, Guido, Maria Chiara, Andrea, Emilio, Matilde, Aldo, Santina, Arturo, Maria, Arrigo, Alessandro, Noemi, Elsa, Amos, Luciana, Pasqua, Anna Maria, Clementina, Angela, Claudio, Anna, Luigi, Romana, Nicola, Ida, Ulisse, Olimpia, Maria, Rita, Adriano, Giacomino, Margherita, Mario, Cecilia, Severina, Alessandro, Franca, Luigi, Caterina, Maria Grazia, Egidio, Maria, Adriano, Paola, Leonardo, Gilberto, Doriana, Ivana, Clementina, Gianfraco, Rita, Paolo, Elvira, Giuliana, Enrico, Lorenzo, Massimiliano, Paolo, Silvia Maria.
Vite ingoiate dal fango. Nomi da non abbandonare nel buio. Così, si chiamavano.*"

(*) fonte: sito ufficiale della fondazione Stava 1985

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Südtiroler kitsch in val di Non

Un garni in Val di Non.

Disclaimer: non ho nulla da obiettare sulle qualità ricettive delle strutture che pubblico: quasi mai le ho sperimentate di persona. Probabilmente si mangia benissimo e si dorme meglio, la qualità dell'ospitalità in regione è mediamente buona ovunque. Non è quindi pubblicità negativa ai loro servizi che voglio fare, è semplicemente una questione estetico/culturale.

E questa mi pare degna di nota: colorino pastello, decorazioni, erker, torretta, abbaini, archi, galletto-banderuola in ottone. C'è tutto, mi pare. Perfetto südtiroler kitsch, perfetta rappresentazione del falso stile altoatesino.

Mi viene un accidente ogni volta che le passo davanti: lo condivido volentieri con voi :D

(Lo so Bersn, dovrei decidermi a varare il blog appropriato. Faren, passada l'istà, giuro che moro e che stenco*)

(*) recitata la formula del giuramento bisognava incrociare gli indici davanti alle labbra e con gli indici incrociati sputare ai quattro punti cardinali. O a quelli che, verso i 7 anni, pensavamo fossero i 4 punti cardinali. Non c'era controgiuramento che valesse, questo era definitivo. Non rispettare il giuramento voleva dire morte sicura. Come si vede dal fatto che sono ancora qui, alive & kicking, a distanza di qualche decennio.

mercoledì 15 luglio 2009

La valle incartata

Val di Non - foto Loriz che ringrazio.
Da guardare in grande, merita: è una delle foto più belle della valle in che ci sia circolazione (strumento lente di ingrandimento)

Val di Non, o per meglio dire val Melinda: una bella valle che ha fatto della monocultura delle mele la sua principale fonte di reddito. Mele, mele, e poi ancora mele: sempre più territorio sottratto al prato, al pascolo, ad altre coltivazioni. Nuovi cultivar e forse anche il cambio climatico permettono di espandere i meleti verso l'alto, in montagna, dove finora i frutti non maturavano. Ma iniziano a saltare all'occhio i limiti di questa monocultura che sacrifica ai pomi la diversità territoriale, la biodiversità, il patrimonio naturalistico e la bellezza del paesaggio. La notizia che anche i "Pradiei" saranno convertiti alla frutticoltura ha provocato alcuni accorati interventi sul quotidiano di Trento "L'Adige": "Gli accorti e lungimiranti nonesi hanno ben pensato di devastare anche quest'area nel nome della «dea mela» consentendone coltura intensiva e, va da sé, tubazioni per le irrigazioni, migliaia di pali in cemento e, com' è facile pensare a quasi 1.000 metri, chilometri e chilometri di splendide reti antigrandine nere o bianche." scriveva quest'autunno Elena Pasquazzo, e Anna Basile le fa il controcanto: "ho letto con apprensione l'articolo sull'Adige di sabato scorso che parla dell'imminente sviluppo della frutticultura sulla magnifica zona dei Pradiei, un'oasi di bellissimi prati fra i paesi di Romeno e Fondo. Il rischio è di deturpare un paesaggio unico in Val di Non con orrendi impianti di meleti, migliaia di pali di cemento e reti antigrandine. Sono inoltre preoccupata per la mia salute poiché sulla stessa pagina dell'Adige leggo un altro articolo allarmante che parla della pericolosità per l'uomo dei fitofarmaci usati sui meleti." (Il problema dei fitofarmaci è molto serio, non ne parlo qui altrimenti allungo troppo il brodo, e un blog non è fatto per i gli articoli lunghi)

Tutto gira attorno al pom, tutto richiama el pom, addirittura una concessionaria di auto ha pensato bene di chiamarsi "Golden Car" e di esporre come insegna una mela golden con le ruote. Vuoi mai che qualcuno si scordi, appunto, la mela d'oro!

A dire la verità in primavera, quando i meli fioriscono tutti insieme, lo spettacolo è splendido. Ettari ed ettari trasformati in una nuvola bianca, milioni di api al lavoro, vista dall'alto la valle sembra un enorme campo di ovatta. Ma la primavera passa, arriva l'estate, e con l'estate i temporali. E la grandine. Che spesso falcia, a strisce, intere zone della valle, rovinando il raccolto della stagione e, se la grandinata è cattiva e rovina le piante, anche quello delle stagioni successive. E quindi?

E quindi si incartano i frutteti con le reti antigrandine. Costose, non sempre efficaci, e, diciamolo, orribili:

Secondo i frutticoltori non c'è alternativa: l'unico modo valido per proteggere dalla grandine i frutteti è quello delle reti antigrandine. Salvano il raccolto e quindi il guadagno dell'agricoltore e salvano il lavoro dei consorzi, dei centri di lavorazione della frutta, dei magazzini e dei magazzinieri, dei raccoglitori, dei cernitori, degli spedizionieri, cosa che le assicurazioni non fanno. Niente mele vuol dire niente lavoro e quindi cassa integrazione. Funziona sempre lo spettro della cassa integrazione.

Lo Stato e la Provincia intervengono massicciamente con contributi per alleggerire il costo delle assicurazioni, ma la crisi mette in dubbio per quest'anno la quota statale, e la provincia di Bolzano sta attendendo le scelte di Roma per decidere le quote ed aprire il portafoglio. Non so cosa stiano facendo a Trento ma immagino la stessa cosa.

Secondo il presidente della potente lega dei contadini di lingua tedesca, il Bauernbund, le reti sono l'unico valido ausilio  contro la grandine nonostante l'installazione delle coperture sia piuttosto costosa, 20 mila euro all'ettaro a cui vanno aggiunte le spese di rinnovo dell'impianto, ovvero "lavorazione del terreno, impalcatura, ancoraggi e ovviamente il costo delle piante da mettere a dimora.(*)"; e nonostante l'amministrazione provinciale non ne sponsorizzi l'installazione, nella valle dell'Adige il 30% dei meleti è ormai coperto.

L'altro giorno si è scatenato un bel temporale, e l'Alto Adige così commenta: "I chicchi ghiacciati hanno colpito parte dal fondovalle, in prossimità del campo sportivo e del Lido fino verso il paese, poco sotto l’abitato della frazione di Sella, mentre verso nord ha lambito quasi il Lago di Caldaro. Gli effetti sono stati disastrosi: il danno, che inciderà più sulla quantità che sulla qualità, si aggira, in certe zone del fondovalle, anche fino all’80%. Per fortuna che oltre un quarto dei meleti della zona di Termeno sono protetti da reti antigrandine. In questo modo è salvaguardato il raccolto e garantito il lavoro presso le varie cooperative frutticole." Pare chiaro che cosa ne pensi l'articolista delle reti antigrandine.

Ogni tanto poi arriva una grandinata di quelle con i controfiocchi, le reti raccolgono la grandine nelle loro pance, si piegano, si spaccano e con loro spaccano le piante che dovrebbero coprire facendo un macello. Il microclima sotto le reti cambia rispetto all'aria aperta, i frutti non prendono colore e bisogna scappellarli una quindicina di giorni prima della raccolta, chissà se sorgeranno altri funghi o malattie che finora non colpiscono i pomi in plen air.

Io cosa ne penso? Capisco i contadini, eccome li capisco. Non c'è assicurazione che ripaghi un anno di fatiche sprecate in un raccolto perso per la grandine. Ma camminare in un paesaggio incartato fa impressione.

Il problema non è, secondo me, reti si o reti no, ma la monocultura a pomi. Pomi, pomi, e ancora pomi e solo pomi e ovunque pomi, coperti da reti. Al posto dei pascoli, reti. Al posto degli orti, reti. Campi non ce ne sono più, solo pomi e reti e fitofarmaci. Turismo? E chi diavolo va in vacanza in una zanzariera?
 

Il problema è non diversificare gli investimenti, non monopolizzarsi su una risorsa e a quella risorsa sacrificare tutto: biodiversità, ambiente, paesaggio, salute. (Cio ho perso uno zio, anni fa, ammazzato dai fitofarmaci!). Non incartare anche l'economia della valle nelle reti delle lobby dei consorzi agricoli e dei latifondisti, dei magazzinieri e dei trasportatori, non incartarsi su sé stessi fino a perdere di vista ogni alternativa.

"[...] Lo scenario rilassante della zona dei Pradiei" prosegue la signora Basile "consente oggi passeggiate incantevoli e riconvertire quella che rimane una delle ultimissime zone aperte della Valle, significa cambiare il volto stesso dell'Alta Valle di Non, costringendo noi turisti a cercare altre luoghi per le nostre vacanze." Importerà a qualcuno? Finchè el pom tira, si vende, porta guadagno, non fregherà bellamente a nessuno. Salvo il brivido gelato corso lungo le schiene dei contadini per il colpo di fuoco batterico, che pareva far strage di meli un paio di anni fa, o lo scopazzo, malattie del melo che fan venire in mente la peronospora che nel 1845 aggredì l'unica varietà di patata coltivata in Irlanda in quegli anni, distrusse il raccolto di alcune stagioni consecutive e fu una delle concause della carestia e della fame che spinsero due milioni e mezzo di irlandesi a emigrare oltre l'Atlantico.

 

(*) Georg Jageregger, presidente della sezione della Bassa Atesina del Bauernbund, al quotidiano Alto Adige dell'8 luglio scorso.