sabato 29 marzo 2008

Il gaìn dei parolòti

(foto Wikimedia, licenza public domain)

Tornavano a casa in questa stagione i parolòti della val di Sole, partiti "for per le Italie" dopo la fera de San Maté, la grande fiera annuale che tuttora si tiene a Malé il 21 settembre, giorno di San Matteo. Quelli di Peio e di Castello tornavano dal mantovano o dal bolognese, quelli di Termenago da Pisa, quelli di Cogolo da Ferrara o da Padova: ogni paese aveva la sua zona per non far concorrenza ai colleghi dei paesi vicini.

D'estate contadini e piccoli allevatori, con un'economia di mera sussistenza, nella brutta stagione, quando la campagna impegnava meno, i parolòti lasciavano la donne e le famiglie per fare i calderai e gli stagnini ambulanti. Passavano di casa in casa, spesso attesi con impazienza di anno in anno, ad aggiustare o vendere utensili di rame, dal paiolo per la polenta al mestolo, dalla grande caldaia per il formaggio alla casseruola, il tegame o la pignatta. Ritiravano anche oggetti vecchi e rotti che, riparati, venivano rivenduti come nuovi con notevoli guadagni.

Come molti altri artigiani girovaghi i paroloti avevano un loro gergo, chiamato tarón o gaìn, che permetteva loro di capirsi fra colleghi senza farsi intendere dalla clientela. Il primo studio sul tarón di cui si abbia notizia fu opera di Cesare Battisti che ne illustrò le caratteristiche in una monografia pubblicata a Trento nel 1906. L'opera, "Il tarón o gaìn. Il gergo dei calderai della Val di Sole nel Trentino", oltre ad un'interessante analisi linguistica, comprende un vocabolario di 330 termini gergali. Più recente, ma non recentissimo,la pubblicazione di Quirino Bezzi "Dizionarietto comparato delle voci gergali taróne" edito dal Centro Studi per la Val di Sole nel 1976.

Di seguito un esempio di tarón in un divertisment in poesia del Bezzi:

"A slacar giust n'ho mai smoinà gnifela,
ma quan che ho slumà ti su la forela
de na baita lassù fra i nossi slonzi
vergot de nöf me s'è stanzià 'n te 'l cor
e coi lusnèi che me pareva 'mbronzi
da quel ciaròs n'ho pù percà che ti.
E fin ch'el zoadór dei sbertidóri
no 'l dirà che l'é ora de zoàr
e ciaperò 'n te 'l bèf 'na botesada
e no sarò pu bon de stonzenar
e pertegàr col ràntech la calcosa
e amò dopo che sarò sgasì
la me manìa sarasti demò ti."

(A dire il vero non ho mai corteggiato una ragazza
ma quando ho visto te sulla finestra
di una casa lassù fra i nostri paesi
qualcosa di nuovo mi è entrato nel cuore
e con gli occhi che mi parevan stralunati
da quel giorno non ho visto che te.
E fin quando il medico
non dirà che è ora di andarsene
e non prenderò nel culo un bel calcione
e non sarò più capace di saltare
e correre col paiolo sulla strada
e ancora dopo che sarò morto
la mia fissazione sarai solo tu)

5 commenti:

  1. Francesca,
    una delle cose che mi piace è cercare di leggere nei dialetti originali, specialmente del sud e tentare di capire. Qui però si fa veramente tanta fatica, senza traduzione. Strano ma vero alla fine degli anni '50, agli inizi del '60, per le strade di Milano circolavano ancora tanti artigiani ambulanti, l'arrotino, l'ombrellaio, lo stagnino, il venditore di ghiaccio... ultimi retaggi di un mondo che stava scomparendo.
    Adesso nei nostri paesini di pianura girà ancora qualche "voce sperduta" ma non è più la stessa cosa e sopratutto è sempre più flebile.
    Guido

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  2. "Donne, è arrivato l'arrotino!" urlava la voce amplificata da un pick-up scassatissimo in una ridente località del litorale laziale ...
    Ripara ombrelli, affila coltelli e forbici, cambia ugelli del gas e altro ancora ... ma gli stagnini ... quelli davvero sono scomparsi!
    Il matto

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  3. guido, la chiave di lettura del gaìn sta nella trasposizione di significato di molti termini dialettali o provenienti dal tedesco, per sineddoche, per metonimia. Il colore per la sostanza, (rosset=rame, grisin=ferro) la materia per l'oggetto (vedrosìn=bicchiere) la posizione per la funzione (cimer=cappello), la qualità o la funzione per il tutto (calcosa=strada). Poi ci sono altri termini che non riesco a ricostruire:n sbertìr= morire, per esempio; zoàr=andarsene velocemente, fuggire. Dal che il "zoadór dei sbertidóri" è il medico.

    Il dialetto ha prestato termini al gaìn che li ha a sua volta restituiti al dialetto, di nuovo modificati. I miei vecchi, i vecchi del paese, usano ancora forele per occhi (in gaìn=finestre) o lusnèi; e zoàr, sbertìr, slonzi per luoghi ripidi e disagiati, e molti altri.

    I giovani, ovviamente, non li usano più, come non usano più i termini dialettali legati al lavoro dei campi e molti altri. Ormai lo parlo più schietto io, il dialetto, che sono lontana per gran parte dell'anno, dei miei cugini giovani: loro l'hanno contaminato con il trentino, coi loro gerghi, con termini che definiscono oggetti che i nostri nonni non conoscevano; spesso non conoscono il significato di termini che io uso abitualmente parlando con i veci, i quali sono felicissimi di sentirmeli usare.

    Cambia l'italiano, velocemente, non si può pensare che non cambi il dialetto. Solo che dell'italiano si serba memoria negli scritti, il dialetto non è lingua scritta ma parlata, non si sa nemmeno come scriverli certi suoni, non ha storia, ha senso solo finché viene usato.

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  4. megamatto, tu sei piu'giovane di me, non te lo ricorderai l'omino che girava per bolzano con un triciclo con pianale, gridando: "straaaaazzaaaa-iòloooooo". Al paese invece un altro tipo strano girava strillando: "straaaaazze, donne, ferovecio, pel de cuneiiiii" e non ho mai capito se quel "donne" fosse un vocativo o se raccogliesse anche donne :D

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  5. guido, il moléta (arrotino) è passato un paio di anni fa qui in città, uno slavo.

    gli ombrelli invece non si aggiustano, si perdono ben prima :D

    (mi sa che ci sta un post sugli ambulanti, e sui mestieri degli emigrati trentini, e sui venditori di immagini del Tesino e... più di un post, direi)

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