Più che la neve che doveva calpestare durante il giorno, era il freddo della notte che gli rendeva duro quel tempo.
Partiva quando il chiarore dell’alba compariva sulle rocce dell’alta montagna dal bel nome che gli stava di fronte: l’ondata del sole toccava poi via via tutte le montagne intorno. Restavano, però, sempre in ombra alcuni versanti e il fondovalle, e i boschi in basso dove il sole sarebbe arrivato solo a marzo. Lì la neve rimaneva sempre appesa alle rocce e agli alberi dando sensazione di freddo fossile.
Camminava su per l’erta fin dove il grande bosco confinava con i pascoli delle malghe più alte e dove il debole sole di dicembre dolcemente lo riscaldava.
Era questo il posto dove l’anno prima i tedeschi della Todt avevano fatto tagliare gli alberi più alti e più belli per rifare i ponti sul Po che ogni volta venivano distrutti dai bombardamenti degli Alleati o dai partigiani.
Ora erano rimasti i grossi ceppi ultracentenari, pesanti e compatti, abbarbicati alla montagna e cementati dal gelo.
Vi saliva portando sulle spalle la slitta leggera e solida, il cibo per un pasto, una borraccia d’acqua, il badile, il piccone, le scuri e gli altri attrezzi li lasciava lassù ai piedi di un abete che aveva i rami fitti e larghi che formavano una capanna sotto il livello della neve.
Un’ora e mezza di salita al mattino, mezz’ora di discesa nel pomeriggio con tre quintali di ceppi sulla slitta. Gli scarponi e le gambe sino alle ginocchia erano protetti con teli di sacco.
Quando arrivava in quell’ultimo bosco, con un ramo di citiso lungo ed appuntito forava lo strato di neve per saggiare se sotto il rialzo c’era un ceppo oppure un sasso; con il badile spalava la neve per denudare il terreno e con il piccone scavava per liberare le radici; con le scuri le tagliava e, infine, con la leva rovesciava il ceppo. I ceppi troppo grandi, prima di sradicarli, li spaccava in quarti o in ottavi con i cunei di ferro e la mazza. A volte faticava molto con poco risultato, altre volte con poca fatica riusciva a fare due carichi con la slitta sino in fondo alla valle, dove in primavera avrebbe potuto vendere mille quintali di legna, o forse più, per le fornaci delle vetrerie. E con il ricavato pagare il debito e il viaggio per l’Australia.
Era rientrato in ottobre dopo aver fatto un lungo giro per l’Europa orientale. L’avevano preso i fascisti durante un rastrellamento nel settembre del '44. Processato, l’avevano condannato a morte per “banditismo” e la condanna cambiata poi con la deportazione a vita in Germania.
In qualche modo se l’era cavata, ma ritornato a casa troppe cose trovò cambiate nel giro di un anno; sua madre non c’era più, e non se la sentiva di vivere in quella casa.
Ma vivere doveva. Decise allora di andare dal santolo Toni che aveva bottega di alimentari. – Santolo – disse -, voi sapete come mi è andata; non ho che poche lire che mi hanno dato al Distretto Militare ma ho tanta voglia di lavorare. Se mi fate credito in primavera pagherò tutto.
Ebbe lardo, farina da polenta, formaggio tarato, orzo, pasta e conserva di pomodoro. Un po’ di patate le ebbe in carità da una famiglia della contrada; barattando due lepri prese con il laccio riuscì ad avere tre chili di sale. Prima delle nevicate caricò tutto il suo avere sul carro di un amico che andava a sboscare, per conto del Comune, l’ultimo legname abbandonato dai tedeschi.
Nella vecchia osteria semidistrutta, sotto un tetto riparato alla meno peggio sopra le travi bruciacchiate, in quell’autunno del 1945 trovarono rifugio boscaioli, bracconieri, cavallari e reduci allo sbando. Ma dopo le prime nevicate tutti se ne andarono per non restare bloccati, e si ritrovò solo. Non gli dispiaceva: poteva parlare con le cose che gli stavano attorno, e lavorare come gli pareva, e pensare e meditare su quanto gli era capitato in quegli anni, da soldato in Albania, da partigiano sulle montagne, da condannato a morte, da deportato, da vagabondo dopo che il Lager era stato liberato dai soldati russi.
I giorni di sole con il freddo intenso, i giorni di neve uniformi e come sommersi fuori dal tempo, il suo fuoco, il silenzio.
E la sua fatica e il sonno profondo sullo strame di paglia accanto al fuoco che si spegneva sulle pietre del focolare dove, per secoli, avevano trovato compagnia i viandanti e i contrabbandieri. Non sapeva il trascorrere dei giorni; aveva,sì, con il coltello, incisa una tacca sul ramo di un abete ogni mattina che risaliva il sentiero scavato nella neve come una trincea, ma non ricordava più con precisione il giorno che era rimasto solo, e forse non sempre aveva inciso la tacca. Avrebbe potuto essere la fine di dicembre, o anche il principio dell’anno nuovo. Ma che importanza aveva?
I viveri, a dosarli bene, potevano bastare ancora un paio di mesi; se poi riusciva a prender con i lacci qualche lepre o un capriolo poteva arricchire la razione. – Magari un giorno – disse al fuoco -, dopo una nevicata, invece di cavar ceppi vado a seguire le tracce.
Anche quella sera aveva ravvivato il fuoco discoprendo la bracia del mattino. E ora, dopo aver appeso alla catena sopra il fuoco il paiolo con l’acqua per fare la polenta, si era arrotolato la sigaretta di trinciato, l’unica che poteva permettersi e sempre in quel momento della giornata.
Guardava le fiamme salire sullo sfondo nero della fuliggine depositata sulle pareti del camino, le faville che si rincorrevano, e si sentiva appagato della giornata trascorsa.
Fuori il cielo si era abbassato e lentamente era incominciato a nevicare. Unico rumore era quello del fuoco e del suo respiro.
Sentì avvicinarsi un frusciare di sci, poi sbattere dei legni per staccare la neve, chiamare il suo nome.
Riconobbe subito la voce ma non si scostò dal fuoco.
Sentì battere con forza sulla porta e ancora ripetere il suo nome. Si alzò dalla panca, levò il paletto che teneva chiusa la porta e chiese: - Cosa vuoi?
- Oggi è Natale – gli rispose l’uomo. - Ho saputo che sei qui. Posso entrare?
- Meglio di no.
- Ascoltami, almeno.
- Vieni avanti.
L’uomo si pulì dalla neve, si avvicinò al fuoco e dopo disse: - Quando ti abbiamo preso e condannato non ho fatto che eseguire gli ordini. E poi era quello il mio dovere verso la patria. Non era colpa mia.
Non rispose, non fece alcun gesto. Guardava il fuoco ed era come rivivere tutto. Le donne e i ragazzi uccisi dai soldati tedeschi, i compagni lasciati morti nella neve, gli ebrei di Leopoli. Il Lager. Il Lager dove era morto quel ragazzo di città che era stato preso e condannato assieme a lui. Poi lo avevano spogliato e buttato nella grande fossa oltre i reticolati deve c’erano jugoslavi, greci, polacchi, russi, italiani. Era stato proprio l’anno prima, di questo tempo, perché assieme alla fame c’era anche tanto freddo.
Forse era Natale quel giorno di dicembre quando morì il ragazzo.
Non ascoltava quello che gli diceva il suo maestro della Scuola elementare, che aveva ritrovato in divisa della Brigata nera. L’acqua nel paiolo stava per alzare il bollore e andò a prendere il sale e la farina.
- Oggi è la Natività del Signore – riprese il maestro, - ho saputo che eri qui da solo e sono venuto a trovarti. Ti chiedo scusa per quello che ti ho fatto. Ho qui nello zaino un panettone e una bottiglia di spumante.
Non poteva perdonarlo, no.
Non per quanto lo riguardava direttamente, ma per gli altri che non avevano nemmeno più un fuoco da guardare. Si avvicinò alla porta e la spalancò.
Là fuori era buio e la neve che mulinava il cielo veniva a posarsi fin sulla soglia di pietra della vecchia osteria di confine.
– Va via – gli disse sottovoce.
Mario Rigoni Stern, Natale 1945. Tratto da: Racconti di Montagna, Einaudi 2007, collana Spuercoralli